sabato 23 febbraio 2013

"Born to Run" cap 10,11,12 di 12

10.
“Stavi correndo nella pista della scuola...” racconta mia madre.
“Sì, lo ricordo” guardo Sonia mentre continuo a saltellare sul posto “ci pensavo proprio oggi, è stato quando t’ho chiesto di uscire, no?”
“Sì” mi risponde dolcemente, lasciando poi continuare la donna.
“Stavi correndo e abbiamo scoperto che, quando corri, torni a... “ cerca le parole “torni a essere te stesso. Sei completamente tu, come prima.”
Io guardo mia madre, poi Sonia.
“Che vuol dire che torno me stesso? Sono un lupo mannaro? Un vampiro?” rido.
“No... Solo che arriva meno sangue al tuo cervello, cioè, ne arriva per non divenire catatonico, ma non abbastanza per essere lucido e cosciente”.
Io aspetto che si metta a ridere ma non succede.
“E perché? Come sarebbe possibile?” voglio vedere fin dove si spinge la loro inventiva.
“I dottori ci hanno spiegato che hai sbattuto la testa. L’anno scorso” spiega mia madre, seria “stavi tornando da scuola, hai attraversato un incrocio e ti ha investito un’auto. Sei rimasto in coma per alcuni giorni, poi ti sei svegliato” i suoi occhi sono lucidi, il mio sorriso sempre meno convinto.
“Un incidente? Ma io non me lo ricordo” smetto di saltellare, cerco risposte nel viso di una, poi in quello dell’altra “è uno scherzo che non mi piace, piantatela!”
“Pensavo non ti avrei più potuto parlare” prosegue mia madre, sta per mettersi a piangere, sospira e trova la forza per andare avanti “ma quando corri, il flusso sanguigno è maggiore, al cervello arriva l’ossigeno necessario per attivare tutte le funzioni cerebrali” guarda l’altra in cerca di conferma “l’ho spiegato bene?”
“Sì, più o meno è così” conferma la ragazza “se ti fermi, se rallenta il battito del tuo cuore, dopo alcuni secondi cadi in uno stato in cui non parli, non ci senti, credo, e non ricordi. Ti lasci guidare docilmente ma... è come se tu dormissi, anzi, come se tu fossi sonnambulo, ecco.”
“Però cominciando a correre ti svegli” si sforza di sdrammatizzare mia madre “si fa molto prima se le scale te le fai da solo senza doverti trasportare di peso.”
Sonia cerca di sorridere a quella che vorrebbe essere una battuta.
“Cosa?” esclamo incredulo “Mi state dicendo che sono un semi-vegetale e la cosa fa ridere? E’ una bugia! Bello scherzo del cazzo, brave!”
“Ti hanno fatto degli esami mentre...” aggiunge Sonia esitando “mentre stavi dormendo. Stanno studiando quali medicine darti, forse dei dosaggi appositi per il tuo caso, ma che non siano pericolosi e...”
“Io non vi credo!” la interrompo “Basta!” passo da un viso all’altro “Sono fermo, no? E non succede niente. Siete crudeli a raccontarmi questa storia. Ci stavo quasi per credere, sapete?” i loro visi hanno un’espressione piena d’affetto, mi infastidisce “Sono sveglio, vedete? Sono... Io sono... cosa...” la figura di mia madre è sfocata, mi volto lentamente verso Sonia, che si avvicina, anche il suo viso è sfocato, sempre di più, di più, di più.

11.
“Cammina piano, piano, piano. Così, bravo. Ora più veloce”.
Luce. E’ il sole che entra da una finestra. E’ la finestra di camera mia, di fronte a me.
Poco più in basso c’è una pulsantiera e un piccolo monitor elettronico.
Sto correndo su un tapis roulant ai cui lunghi braccioli sono aggrappato con entrambe le mani. Sul dorso della sinistra c’è una mano femminile.
“Buongiorno!” mi volto. E’ Sonia.
“Ciao” rispondo disorientato, camera mia è sempre la stessa ma questo tapis roulant è nuovo. Mi chiedo quando l’abbiano portato. Ma soprattutto... quando ci sono salito?
“Come stai?” mi chiede Sonia.
“Mi sento stanco”
“Lo credo bene, ti sei appena svegliato” vedo alle sue spalle il mio letto, non ancora rifatto, dal quale devo essere appena uscito. Ma non lo ricordo. Mi ha aiutato lei?
“Vuoi tornare a dormire un altro po’?” mi chiede.
“No, ora che sei qui con me, non voglio più dormire” le rispondo serio. Lei sorride.
“Questo?” indico il mezzo su cui sto correndo.
“E’ da parte nostra. Così non sei costretto a uscire di casa quando fa brutto tempo.”
“Nostra?” chiedo.
“Ho partecipato anch’io, ovviamente” mia madre entra nella stanza dalla porta alla mia destra “anche se so avresti preferito fosse solo un regalo della tua bella” mi porge una caraffa sul cui fondo ci sono quattro dita di caffelatte. Lo bevo tramite una cannuccia, continuando a correre.
Ricordo la corsa di ieri.
Ricordo l’incontro con Carlin.
Ricordo di averlo seminato e di essere tornato a casa.
Ricordo la strana storia che mi hanno raccontato.
Mi sono fermato e poi... niente, fino ad ora.
L’incidente. Forse ricordo quando è successo, anzi, prima che succedesse. Mentre attraversavo una strada una macchina quasi mi stava per investire.
Mi è venuta addosso?
E la scuola?
Ora capisco.
Nell’ultimo mese ho solo vissuto correndo.
E Sonia era quasi sempre presente.
“Quindi... “ tento di chiedere ma le parole mi si strozzano in gola. Ci riprovo.
“Quindi sarò costretto a correre sempre?”
“Come ti dicevamo ieri” mi spiega mia madre apprensiva “stanno provando a fare delle medicine per tenere alto il battito cardiaco ma non sanno se e quando sarà possibile.“
Poi Sonia finalmente risponde senza mezzi termini, più determinata.
“Se ti fermassi perderesti conoscenza. Come ieri.”
“Capisco” sospiro.
“Mamma, lasciaci soli per favore.”
Si scambiano un’occhiata d’intesa. Obbedisce.
Io continuo a correre, guardo prima la ragazza, poi di fronte a me.
“Quindi” i miei occhi diventano lucidi “quindi non potremo, per esempio, andare al cinema. O in pizzeria. Mai” non mi volto verso di lei e non aspetto risposta, osservo qualcosa di inesistente al di là della finestra. La sua mano stringe la mia.
Poco a poco rallento la mia andatura, fino a camminare. Le lacrime scendono sulle mie guance. Piango. Prima in silenzio. Poi piango più forte, aggrappandomi con tutto il peso ad entrambi i braccioli, per non cadere in avanti.
Dieci minuti. Per dieci minuti non parlo, cammino a passo svogliato, un passo che per più di una volta sembra essere l’ultimo. Se mi fermassi il mondo si spegnerebbe, ma solo momentaneamente. Vorrei tanto tornare a dormire, smettere di pensare, per sempre.
La mia vita.
La mia vita.
La mia vita.
Sonia è lì, la sua mano sulla mia. Anche lei non dice niente.
Aspetta.
Mi porge un fazzoletto. Mi asciugo gli occhi, mi soffio il naso, metto il fazzoletto in tasca.
Penso e cammino.
Sospiro profondamente.
Guardo di fronte a me, il sole che entra dalla finestra. Sembra una bella giornata a vederla. Nel pomeriggio potrei uscire. Posso uscire. Mio padre non poteva, io sì.
Aumento il passo sul tapis roulant e ricomincio a correre.
Tolgo le mani dai braccioli. Raggiungo la mia andatura ideale.
Penso e corro.
I miei pensieri sono più chiari, limpidi.  
“Non sei costretta a rimanere con me” esordisco dopo il lungo silenzio.
“Nessuno mi costringe” risponde pronta, sorprendendomi.
Sonia ha già pianto in queste settimane. Tante volte. Ha pianto per me, per se stessa, per tutto quanto. E’ solo una ragazzina ma ha pensato tanto, preso decisioni difficili e preparato parole. Tutto da sola.
“Però” continua “se smetti di correre o ti lasci andare, non so se potrò restare con te. Corri per vivere, per te e per tua madre. E corri anche per me, se mi vuoi bene.”
Mi volto verso di lei. Sta dicendo davvero, è seria. Riporto lo sguardo di nuovo in avanti, fuori dalla finestra.
“Discorsoni importanti oggi” le dico.
“Scemo, è una cosa seria questa” mi sorride.
Io continuo a correre. Prendo la sua mano nella mia.
“Quindi stasera potremo vederci?”
“Sì” sorride “ora sì”.

12.
Il mio lettore mp3 ha deciso di suonare la mia preferita di Springsteen.

We gotta get out
while were young
`cause tramps like us,
baby, we were born to run

Penso alle parole della canzone:
“Dovevamo andarcene quando eravamo giovani, perché siamo vagabondi, piccola...”
Lo abbiamo fatto, no? E siamo andati lontano, tu ed io. Non è vero, Wendy?
Cerco nel pubblico il suo viso e lo trovo.
Sonia mi sorride e mi saluta. Al suo fianco mia madre, anche lei sorridente e orgogliosa.
Siamo in piazza della Signoria a Firenze e sta per cominciare l’ultramaratona, una maratona di cento chilometri che terminerà a Faenza. Adoro correre questo percorso.
Nella bolgia di persone con il numero sul petto, pronte a partire, sono l’unico che ha già cominciato a spendere energie, correndo sul posto. La mia corsa è già cominciata.
So di apparire strano agli altri ma ormai c’ho fatto l’abitudine.
Qui è sicuramente meno stravagante che, per esempio, al supermercato.
Tra i corridori in gara riconosco due facce, sono Duetti e Carlin, a pochi passi da me. E’ piccolo il mondo. Sono cresciuti anche loro in questi sette anni ma per certi versi non sono cambiati. Duetti mi nota, da’ una gomitata a Carlin, i due si mettono a ridere guardando “il matto che saltella sul posto da solo” ma non credo mi abbiano riconosciuto.

Negli ultimi anni ho lasciato crescere barba e capelli, è un look che mi fa sentire più libero di essere come sono. Ho dovuto definire delle priorità e quella di avere un aspetto ordinato da bravo ragazzo imborghesito non rientrava tra queste. E poi tutti dicono che ho una bella barba, a Sonia piace e mia madre dice che crescendo assomiglio sempre di più a mio padre da giovane.
“Speriamo non mi arrestino per sbaglio” le ho risposto una volta.
Non le è piaciuta molto la battuta ma prendere la vita così, non troppo seriamente, è l’unico modo con cui riesco ad affrontarla col sorriso. Se non ridi di certe cose, è finita.
La mia giornata è scandita da vincoli ben precisi che mi permettono di poter vivere in maniera tutto sommato normale, forse un po’ di corsa, se permettete il gioco di parole.
Mi sveglio su un tapis roulant dopo che qualcuno mi ha accompagnato dal letto al mezzo. Faccio colazione lì sopra, cercando di non rovesciare niente, cosa che non sempre riesce ma vado migliorando. Poi esco a correre. Quando sono in casa corro sul posto, viviamo al piano terra, non rischio di disturbare nessun vicino.
Ho intrapreso la carriera agonistica. Ho pensato che, se proprio dovevo essere costretto a correre, tanto valeva farlo diventare il mio lavoro. C’è chi passa otto ore in un buco d’ufficio e poi altre due ore in macchina, ogni giorno; tutto sommato la mia situazione non è peggiore della loro. Da un certo punto di vista è addirittura migliore la mia.
E ho avuto la possibilità di vedere il mondo. Negli ultimi due anni ho partecipato alle maratone più famose e alcuni sponsor hanno pagato bene.
Sonia è sempre rimasta al mio fianco. I suoi genitori sono delle brave persone, hanno detto che se continuerà a tenere alta la media scolastica potrà fare quello che vuole.
Si è sempre occupata degli aspetti burocratici ed economici, dei contratti con gli sponsor, delle iscrizioni, dei viaggi e delle visite mediche. Una piccola manager in carriera.

E ora sono qui, a Firenze, pronto per una nuova sfida.
Sonia è diventata una donna. La mia donna. E aspetta il nostro primo bambino. Alcuni amici molto disinibiti c’hanno chiesto come abbiamo fatto a... Che sfacciati! Mi è bastato rispondere loro che, a letto, il battito cardiaco rimane elevato, spesso e volentieri.
Ora saltello da un piede all’altro, quel tanto che basta per rimanere pronto per partire.
Un ragazzo, col numero 96 sul petto, si avvicina.
“Lei è Mattia Pascal, vero?
Io annuisco. Duetti e Carlin confabulano tra loro, senza staccarmi gli occhi di dosso.
“Lei è il vincitore di tutte le più grandi maratone mondiali. Wow! E’ un onore” mi porge la mano. Io contraccambio la stretta e gli dico un paio di frasi gentili e di incoraggiamento.
Duetti e Carlin hanno smesso di sorridere. Penso che potremmo scambiare due chiacchiere, prima di partire. Perché no? Siamo adulti e il passato è passato.
Ma i due si allontanano mescolandosi agli altri corridori prima che io possa avvicinarli.
Forse pensano che vincerò questa gara.
E hanno ragione.
Perché non posso fare altro.
Perché vivo solo per questo.
Perché io sono nato per correre.

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