domenica 17 febbraio 2013

"Born to Run" cap 1,2,3 di 12

1.  
Corro.
La pista ha quattro corsie ma non è molto grande, un giro completo è lungo all’incirca centocinquanta metri. Corro da più di un’ora e non sono per niente stanco. Mi sento vivo.
All’esterno della pista c’è molto verde, alcuni alberi, dei cespugli, l’odore di erba appena tagliata. Man mano che il panorama ruota davanti ai miei occhi, compare il grande edificio scolastico di tre piani. Le inferiate grigie alle finestre lo farebbero assomigliare a una prigione se non fosse per quel giallo sbiadito che lo ricopre.
All’interno della pista c’è un campo da calcetto che all’occorrenza può divenire un campo da pallacanestro. I miei compagni di classe sono tutti lì. Dopo la corsa hanno fatto i rituali esercizi e ora stanno per fare una partita. Solo io sono rimasto in pista. La professoressa di educazione fisica è una cinquantenne con i capelli neri, lunghi, il fisico asciutto, gli occhiali spessi e un immancabile fischietto al collo. Sta insegnando al gruppo le regole del gioco. Non ha notato la mia assenza benchè stia girando attorno a loro da un bel pezzo.
Continuo a correre. Mi sento bene, i pensieri sono chiari, limpidi.  
Eppure non riesco a ricordare che ho fatto stamattina.
Ho addosso dei pantaloncini blu e una vecchia maglietta nera. La maglietta è mia, lo so, ricordo quando l’ho comprata e ricordo di averla indossata un paio di volte. Avevo poi deciso che il disegno dell’elefante sul petto era infantile e non l’avevo più voluta mettere.
Quando. Quando ho deciso di portarla per l’ora di educazione fisica?
Niente. Non lo ricordo. E’ strano.
Di tanto in tanto guardo i miei compagni di classe, al centro della pista. Il più alto di loro, Duetti, mi ha visto, si è messo a ridere e ha dato una lieve gomitata al più grosso, Carlin, per fargli notare “quello che sta correndo da solo”.
Ora sono in due a sghignazzare.
Detesto i miei compagni di classe.
E detesto il mio piccolo paese e la gente che vi abita.
Da dove è nato tutto questo odio? Riesco a ricordarlo?
Oh sì. Questo lo ricordo bene.

2.
Mio padre, da giovane, vinse qualche maratona. Conservava tre coppe e alcune medaglie in salotto, in bella vista. Ne andava molto fiero e non si stancava mai di raccontare aneddoti sulle competizioni a cui aveva partecipato. Era sempre rimasta una sua grande passione e ancora si teneva in forma percorrendo qualche chilometro nel tardo pomeriggio, dopo lavoro.
La sua canzone preferita era “Born to Run”, nato per correre, di Bruce Springsteen; la canticchiava spesso, anche da solo, tanto che a me e mia madre era venuta a noia e lo prendevamo in giro.
Una sera mio padre uscì per andare a correre. Indossava una felpa scura, col cappuccio tirato sul capo. Proprio a causa di quel cappuccio e della barba che si lasciava crescere, risultò sospetto e i carabinieri lo avevano fermato. Aveva provato a spiegare che in inverno, con la nebbia, avere il cappuccio sulla testa era una cosa normale e che portare la barba non violava nessuna norma.
Non servì.
Una giovane coppia, i Leopoldi, era venuta a vivere nel nostro paesello. In controtendenza a tutti quelli che scappavano verso le grandi città. Avevano comprato una delle nuove villette fabbricate nella zona nuova. "Qui metteremo radici" avevano detto.
Fino a quella sera quando avvenne il furto. Tremila euro in contanti più gioelli.
Al giovane Leopoldi avevano spaccato il naso. La moglie era in stato di shock: l’avevano minacciata di violenza e, anche se abusi non ne ce n’erano stati, aveva urlato tanto da perdere la voce.
Un’arancia meccanica nella bassa ferrarese.
E mio padre sembrava scappar via proprio da quella casa.
Non aveva documenti con sé, gli permisero di chiamarci per portarglieli in caserma. Andai anch’io. Una volta arrivati vidi il timore nei suoi occhi ma lui ci rassicurò: “E’ un errore, non vi preoccupate, tornate a casa, vi raggiungo più tardi.”
Ma non tornò.
La giovane coppia lo aveva identificato come colpevole dell’aggressione. Giustizia doveva essere fatta e così finì in prigione dopo un processo che non permise altre soluzioni. La televisione parlava sempre di processi caduti in prescrizione. Per quel processo, come per quelli della povera gente, tutto si svolse senza ritardi e rinvii.
La notizia si sparse velocemente per il paese. Nessuno mosse un dito per difenderlo o per dare una parola di conforto a mia madre. Nessuno. Mio padre era sempre stato cordiale con tutti e a tutti, una volta o l'altra, aveva teso la mano. Nessuno lo difese e le uniche parole che sentii furono di scherno, nei suoi confronti e nei miei.

Compio un altro giro della pista. Sento che potrei continuare per giorni. Aumento un po’ l’andatura, anche perché ricordare quei momenti fa nascere in me una rabbia che solo così, spendendola fino all’esaurimento delle energie, posso sopportare.
La professoressa non si è ancora accorta di me.
Tanto meglio, preferisco correre e stare lontano dai compagni.
Se ripenso ai giorni seguenti l’arresto di mio padre...

3.
“Figlio di un ladro! Sei il figlio di un ladro!” urlò Carlin durante la ricreazione. Alle sue parole avevano fatto eco quelle di altri compagni.
“Violazione di domicilio e furto con scasso!” continuò Duetti “Ladro lui! Ladro tu!”
“Furto e aggressione! Dovrebbero impiccarlo!” concluse Carlin “ci vuole la pena di morte per quelli come lui!” e mi spinse facendomi cadere per terra. Tutti risero.
Sonia era distante, con alcune compagne di classe, ma aveva assistito alla scena.
Anche le sue amiche avevano riso. Lei no.
Duetti e Carlin erano i due ripetenti della classe. Ripetenti perché troppo stupidi, forse, per superare la terza media al primo colpo. Ma io penso non studiassero perché convinti che una volta adulti avrebbero ottenuto tutto quello che volevano a suon di pugni. Come allora.
Ad ogni modo, quelle parole mi rimasero impresse. I ragazzini della nostra età non leggono i quotidiani e non hanno un vocabolario così ampio. Al limite ripetono a pappagallo frasi sentite alla televisione. O, più frequentemente, dai genitori.
Rimasi in silenzio, al mio posto, fino alla fine delle lezioni.
“Ladro!” ripeteva la mia testa all’infinito “Ladro lui! Ladro tu!”
Dopo il suono dell’ultima campanella, aspettai che tutti se ne andassero. Per quel giorno non avevo più voglia di confrontarmi, con nessuno.
Una volta uscito andai sconsolato verso il retro dell’edificio, dove lasciavamo le biciclette. Girato l’angolo mi arrestai. La mia bici era per terra, una ruota girava a vuoto e la catena dondolava fuori dai dischi dentati.
Poggiai lo zaino a lato, vicino al muro giallo della scuola, sollevai la bici e la capovolsi sottosopra, non senza difficoltà, per rimettere a posto la catena.
Ero rimasto in ginocchio per alcuni minuti, sporcandomi di grasso scuro le mani ma alla fine ce l’avevo fatta. Poi avevo scoperto che entrambe le gomme erano a terra.
Non riuscivo a contenere le lacrime, per colpa di quei ragazzini e della loro crudeltà.
E per colpa di mio padre che, sì, forse aveva veramente rubato, non pensando a me.
Era tutta colpa sua.
“Mattia, tutto bene?” mi chiese Sonia, comparendo dall’angolo alle mie spalle.
“Secondo te?” mi alzai, rosso in viso per essere stato colto in un momento di debolezza, e scalciai la bici, facendola cadere al suolo con violenza. Poi la ripresi, l’afferrai per manubrio e sella e dopo qualche passo veloce la lanciai con forza verso gli alberi.
La bicicletta percorse pochi metri, da sola, in equilibrio, senza conducente.
Poi cadde malamente, con fracasso.
Presi lo zaino e me ne andai via correndo.
Sonia era rimasta pietrificata, sia dal gesto che dalla cattiveria con cui le avevo risposto.
Io decisi che da quel giorno sarei andato a scuola a piedi, anche se distante.
Un problema di meno. E poi io amo correre.

Se adesso sono in questa pista, isolato dagli altri, è anche per questo. Mi fa sentire libero di essere come sono, di andare dove voglio, senza bisogno di niente e di nessuno.

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